Nel dicembre 2021, con le modifiche al D. Lgs. 81/08 (Legge n. 215/2021 di conversione del Decreto-Legge n. 146/2021), è stata introdotta in modo esplicito tra gli obblighi dei preposti l’autorità a interrompere il lavoro per ragioni di salute e sicurezza, di seguito Stop Work Authority. In effetti, tale autorità era già preesistente nella stessa definizione di preposto data dalla lettera e) dell’articolo 2 (definizioni) dove viene detto che il preposto esercita un “funzionale potere di iniziativa”. Ma con la modifica della lettera a) e l’introduzione della lettera f bis) nell’articolo 19 (obblighi dei preposti), la Stop Work Authority è ora ancor più esplicitamente e fortemente collegata alle funzioni di ruolo del preposto.
“In caso di mancata attuazione delle disposizioni impartite o di persistenza dell’inosservanza”, la lettera a) dell’articolo 19 impone al preposto di “interrompere l’attività del lavoratore e informare i superiori diretti”.
Si può prevedere che nella stragrande maggioranza delle situazioni reali questa interruzione dell’attività di un singolo lavoratore si risolva in un breve, se non addirittura brevissimo, intervallo di tempo necessario al lavoratore per rimettersi in conformità (tipicamente, il tempo necessario a indossare, o a indossare meglio, i DPI assegnati). Insomma, l’esercizio della Stop Work Authority in ottemperanza a questo obbligo non dovrebbe presentare né una significativa novità, né particolari difficoltà attuative in quanto il riconoscimento della non conformità nel comportamento del lavoratore è (dovrebbe) essere facilitato dalla identificazione delle specifiche forme del comportamento atteso sulla base dei documenti di sicurezza come la Scheda Rischio Mansione, il DUVRI o il POS, il Permesso di Lavoro.
Ben più problematico e insidioso è, invece, l’esercizio della Stop Work Authority disciplinato dalla lettera f bis) dell’articolo 19: “in caso di rilevazione di deficienze dei mezzi e delle attrezzature di lavoro e di ogni condizione di pericolo rilevata durante la vigilanza, se necessario, interrompere temporaneamente l’attività e, comunque, segnalare tempestivamente al datore di lavoro e al dirigente le non conformità rilevate”. Qui ci sono due grandi e articolate insidie all’attuazione dell’obbligo o implicazioni negative collegate alla sua attuazione. Provo a metterle in sequenza:
- Con riferimento alla “condizione di pericolo rilevata”, un primo problema è che non tutti i pericoli appaiono autoevidenti. Ci sono almeno 3 ostacoli alla rilevazione di un pericolo.
- Il primo è di ordine cognitivo-percettivo. Noi non vediamo quello che c’è, ma quello che c’è e che siamo preparati a vedere. Molti aspetti di pericolosità sono rilevabili con le capacità di riconoscimento apprese semplicemente crescendo nella nostra civiltà e modernità. A esempio, tutti gli adulti sanno che i vetri rotti tagliano, il fuoco scotta e nei buchi si può cadere. Non altrettanto spontaneo è il riconoscimento, a esempio, della pericolosità dei dispositivi che usano luce coerente (laser). Qui occorrono conoscenze teoriche della natura del pericolo e delle condizioni d’uso che possono influire sul rischio, come la presenza di superfici riflettenti. La nostra risposta all’ostacolo cognitivo-percettivo sta nell’ampliamento delle categorie osservative con cui raccogliamo informazioni dalla situazione (prima fase del processo noto come consapevolezza situazionale).
- Il secondo ostacolo è di ordine cognitivo-giudicante. Il problema sta essenzialmente nella difficoltà a distinguere i concetti di pericolo (le “cose” del mondo per come sono fatte) e di rischio (le caratteristiche di chi con queste “cose” interagisce: chi, con quali competenze e con quali intenzioni. Ma non si dovrebbe scordare un altro aspetto del rischio: le caratteristiche della situazione in cui avviene l’interazione con i pericoli). Al riconoscimento di un pericolo spesso si frappone il giudizio (spesso corretto) di rischio basso. Se io ritengo che l’interazione di una persona con un pericolo (a esempio di un bambino di pochi mesi che stringe in mano una normale penna biro) dia luogo a un rischio alto, ovvero tale da giustificare la fatica di fare qualcosa per cambiare la situazione, allora in quella normale penna biro vedrò facilmente le caratteristiche di pericolosità date dalla sua forma appuntita e dalla sua resistenza meccanica che la rendono un oggetto idoneo a procurare una ferita da penetrazione, e prevedibilmente mi disporrei a fare qualcosa per cambiare la situazione. Ma se io vedessi quella stessa penna, ovvero un oggetto dotato delle stesse caratteristiche di pericolosità (durezza e acuminatezza), nelle mani di un adulto sobrio e psicologicamente equilibrato, correttamente valuterei il rischio come basso (disponendomi a non fare nulla per cambiare la situazione). Ma a fianco di questa valutazione corretta sull’intensità del rischio, di solito, si rileva il giudizio errato che porta a dire “ che non c’è alcun pericolo”, ovvero che la penna non è pericolosa (anche se lo è perché intrinsecamente in grado di procurare un danno). Quando io interagisco con qualcosa che per me, ora, fa nascere un rischio che giudico basso, devo sempre ricordare che quello stesso pericolo può generare un rischio alto per un’altra persona o per me in un altro momento, in un’altra condizione. La seconda strategia per il riconoscimento dei pericoli è, dunque, insegnare (finalmente!) la differenza tra pericolo e rischio per rendere più agevole la seconda fase del processo di consapevolezza situazionale: l’attribuzione di significato.
- Il terzo ostacolo è di natura cognitivo-sociale. Noi non siamo mai decisori isolati. Agiamo in una fitta rete di aspettative di ruolo. La segnalazione dei pericoli in che modo rientra tra queste aspettative che rivolgiamo ai ruoli contigui e/o che i ruoli contigui rivolgono a noi?
A differenza della Stop Work Authority esercitabile in attuazione della lettera a) dove non si presentava un significativo dilemma decisionale tra sicurezza e produzione (ricordate, si trattava ‘solo’ di ricondurre un lavoratore a conformità con un prevedibile basso impegno temporale di sospensione del lavoro di un singolo lavoratore), con l’attuazione della Stop Work Authority in attuazione di questa lettera f bis) l’interruzione può riguardare il lavoro di una intera squadra e fino a che non è rimossa la condizione di pericolo, azione che può richiedere anche lunghi periodi di sospensione del lavoro. Per questo motivo, la decisione di esercitare la Stop Work Authority in attuazione della lettera f bis) può essere riconosciuta come una decisione dilemmatica, una decisione dove se decidi di andare verso la sicurezza, necessariamente ti allontanerai dalla produttività e viceversa.
I vincoli e le strategie per superare questo terzo ostacolo in buona sostanza corrispondono alle criticità dell’esercizio della Stop Work Authority che tratterò nei paragrafi seguenti. Qui ritengo opportuno anticipare che il superamento di questo terzo ostacolo costituisce una facilitazione anche organizzativa e non solo individuale alla terza fase del processo di consapevolezza situazionale che è la previsione di stati futuri restituita al mondo nella forma di una decisione a fare o non fare, fare in un modo o in un altro.
- La seconda insidia sta nell’inciso “se necessario”. Qui ci sono due potenziali implicazioni negative per i preposti e per il sistema aziendale di prevenzione in cui agiscono.
- Se un preposto dovesse trovarsi davanti a un’autorità come l’ispettore dell’Azienda sanitaria locale, il Pubblico Ministero, il Giudice, ciò avverrebbe perché sarà accaduto qualcosa, un incidente, un infortunio. Proprio l’accadimento dell’evento avverso crea il presupposto di uno squilibrio cognitivo tra chi è il destinatario di un obbligo di legge (il preposto ai sensi dell’articolo 19, lettera f bis) e l’autorità che deve giudicare se quella persona destinataria dell’obbligo vi ha ottemperato. In parole semplici, l’autorità avrà nel momento in cui interviene una conoscenza (l’evento avverso che è accaduto) che il soggetto obbligato non poteva avere nel momento in svolgeva la sua (obbligata) prestazione cognitivo decisionale di riconoscere se era o no necessario interrompere il lavoro. C’è uno squilibrio cognitivo che prende la forma di un pregiudizio del senno di poi, o hindsight bias.
- Credo che la più negativa implicazione dell’attribuzione della decisione di riconoscere in isolamento cognitivo se è necessario o no interrompere un lavoro per avere rilevato una condizione di pericolo sia rilevabile nella tendenza delle persone a emularsi nel comportamento di convivenza con il pericolo, piuttosto che nel comportamento opposto di respingere questa convivenza. Provo a dimostrare questa affermazione con un immaginario esperimento sociale.
Il preposto Attilio e il preposto Lucio un certo giorno svolgendo attività simili, riscontrano una uguale condizione di pericolo: Attilio nel suo reparto con la sua squadra e Lucio nel suo reparto con la sua squadra. A esempio, rilevano che una componente delle macchine impiegate nel processo mostra un segnale di un possibile imminente cedimento strutturale nel contenimento del prodotto, oppure rilevano il mancato funzionamento di un dispositivo di protezione in caso di fuoriuscita del prodotto pericoloso. Attilio rileva la situazione, ma decide di lasciare proseguire l’attività; attività che a fine giornata sarà conclusa senza alcun incidente né, tanto meno, infortunio. Lucio, invece, a fronte di una condizione di pericolo del tutto simile a quella rilevata da Attilio, decide di interrompere il lavoro anche se questa decisione comporta un ritardo nel completamento dei lavori programmati.
Domanda: a fine giornata, i capi rimprovereranno Attilio per avere lasciato andare avanti il lavoro? Risposta: no. Perché dovrebbero farlo? Verosimilmente, nemmeno hanno conoscenza della decisione di lasciare andare avanti il lavoro in presenza della condizione di pericolo rilevata. Altra domanda: a fine giornata i capi rimprovereranno Lucio per avere interrotto il lavoro? Anche qui la risposta non può che essere no, perché Lucio ha esercitato il suo DOVERE ai sensi della lettera f bis) dell’articolo 19 (che così appare come uno “scudo”).
Il giorno successivo c’è da affidare il lavoro a una delle due squadre: quella di Attilio o quella di Lucio. È un lavoro importante perché si tratta di soddisfare la richiesta di un cliente molto ‘demanding’, molto pressante e importante. Domanda: a chi verrà affidato il lavoro? Ad Attilio o a Lucio? Se vi viene da rispondere ad Attilio, è segno che avete una certa esperienza dei processi impliciti di riconoscimento dei meriti e della capacità prestazionale. Insomma, a Lucio non è stato fatto nessun rimprovero il giorno prima, ma il giorno seguente, probabilmente, Lucio si è trovato nella considerazione dei capi in posizione di svantaggio a confronto con Attilio.
Il terzo giorno, di nuovo Attilio e Lucio rilevano la nota condizione di pericolo e ancora si trovano nella condizione di dovere decidere se è necessario interrompere il lavoro o no. Domanda: che cosa deciderà Attilio lo sappiamo; ma che cosa deciderà Lucio? Risposta: non è altrettanto sicuro che Lucio rimanga coerente con la sua scelta di interrompere il lavoro, ovvero con la Stop Work Authority esercitata il primo giorno, perché 1) Attilio ha lasciato lavorare e alla sua squadra non è successo nulla di avverso; 2) Attilio è stato riconosciuto “bravo” e Lucio no.
Ecco spiegato con questo esperimento immaginario (ma non irrealistico) il fenomeno socio-organizzativo della Normalizzazione della Devianza. Fenomeno che, con buona pace del legislatore che pensava di aumentare la sicurezza con l’obbligo a decidere sulla necessità di interrompere il lavoro, è alla base dei tanti disastri enormi che arrivano agli ‘onori delle cronache’ (ahimè) come il naufragio della Concordia sulla scogliera dell’isola del Giglio, o il disastro di Brandizzo con i 5 manutentori della linea ferroviaria travolti da un treno della notte; ma anche di innumerevoli incidenti ‘minori’ di cui i mass media non parlano. E qui sta la caratteristica ‘boomerang’ della lettera f bis.
Io credo che la caratteristica ‘boomerang’ prevarrà su quella ‘scudo’, a meno di fare qualcosa che interrompa la deriva verso il disastro rappresentata dalla Normalizzazione della Devianza.
Domanda: Che cosa si può fare?
Risposta: Quando Lucio interrompe il lavoro, non basta assicurargli con la protezione della legge che non riceverà alcun rimprovero (del resto come sarebbe possibile che ne riceva? Lucio ha ottemperato a un obbligo. Per lui f bis è uno ‘scudo’). È anche necessario che i capi di Lucio avviino una istruttoria per decidere a loro volta se, dalla decisione di Lucio, può derivare una nuova “disposizione aziendale” (che per l’obbligo di osservanza dei lavoratori e di vigilanza dei preposti ha lo stesso valore delle “norme di legge”). Se decidono di adottare una disposizione aziendale, il terzo giorno, quando Attilio, si troverà di nuovo davanti a quella ormai nota condizione di pericolo, non dovrà più decidere se interrompere il lavoro o no, dovrà applicare e fare applicare la disposizione aziendale.
Non sto dicendo che la direzione deve necessariamente adottare la disposizione in conseguenza della decisione di Lucio. Sto dicendo che deve attivare un processo di valutazione sulle ragioni di quella decisione e sulla opportunità di emanare la nuova disposizione aziendale.
In conclusione, qui c’è la possibilità di elevare l’approccio NTS dall’esercizio individuale della prestazione cognitiva di consapevolezza situazionale all’apprendimento organizzativo e al miglioramento continuo. E c’è anche una visione sistemica degli obblighi dei preposti e di quelli del datore di lavoro e dei dirigenti: oltre all’articolo 19 (obblighi dei Preposti), comma 1, lettere f e f bis, anche l’articolo 18 (obblighi del Datore di lavoro e dei Dirigenti), comma1, lettera z: “aggiornare le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi…”.
Attilio Pagano, cofondatore e socio competente AiNTS